L’elaborazione del lutto da parte di un vedovo quarantaduenne che si interroga sulla propria incapacità di provare dolore. Esemplare il modo in cui l’autore riesce a evitare la trappola dell’autocommiserazione lungo le (tante) pagine del romanzo. Lo fa servendosi di una carrellata di strambi personaggi che gravitano attorno al protagonista, così impossibilitato a isolarsi da tutto e dedicarsi esclusivamente a sua figlia. Ho meno apprezzato, invece, la scrittura, fra paragrafi interminabili, aggettivi e avverbi fuori controllo (mi è toccato rileggere quattro volte “dostoevskianamente” prima di credere ai miei occhi) e la sensazione di essere un ospite indesiderato in mezzo a tanto intellettualismo.